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Sono sempre ammalato ma mi sento bene

  |   Testimonianze

Marco D. (preferisce che il suo cognome non venga divulgato, ma è d’accordissimo sul raccontare le sue sofferte esperienze) è un professionista di Cuneo. Dalla voce (un accento poco piemontese – rimarco – e lui precisa: “Siamo vicini all’Occitania, siamo un po’ francesi”) lo immagino un signore longilineo e di carattere riservato, un po’ timoroso che si possa falsare quel che dice. Non so se questa mia percezione corrisponda al vero, comunque lo rassicuro: “Riporto esattamente quello che mi si racconta, condensandolo per esigenze giornalistiche. Le manderò il testo scritto, in modo che possa segnalarmi eventuali errori. Li correggerò scrupolosamente”. Avverto un respiro di sollievo. Il signore sente che di me può fidarsi. Ha inizio la nostra conversazione. Qualche caso di tumore in famiglia? Tra i parenti stretti, gli ascendenti?. “No, assolutamente”. Come ha scoperto di avere un cancro? “Banalmente, si potrebbe dire. Una mattina mi sveglio e fatico ad alzarmi; ho un mal di testa indefinibile, ‘strano’. Mi spavento e corro dal medico di famiglia. Lui mi ascolta, mi visita, mi fa alcuni esami. Poi mi dice: “Non riesco a capire; dammi retta, vai subito al pronto soccorso”.

Marco D., un po’ sconcertato, ci va: viene prontamente ricoverato. Resterà in ospedale per quasi due mesi. “Non sono in grado di ricordarlo con precisione”, dice come scusandosi. Ricorda però che fu sottoposto a esami su esami e che l’attesa dei risultati ogni volta era angosciante. Diagnosi: metastasi al cervelletto, da verosimile tumore polmonare. Forse il medico di famiglia ne aveva avuto il dubbio. “Credo che avesse capito che la situazione era seria, ma che non volesse essere lui a mettermi al corrente del mio grave problema”. L’anno era il 2004. “Tutti quegli esami mi frastornavano; mi domandavo perché ci volesse tanto tempo per arrivare a una diagnosi; passavo continuamente dalla speranza nel buon esito alla disperazione per un esito preoccupante. Nel medesimo tempo apprezzavo lo scrupolo davvero encomiabile del personale sanitario. Pensi che il medico che poi mi ha operato (la malattia, nel frattempo, era avanzata) ha ritardato di due ore l’intervento per effettuare verifiche nella sala operatoria”.

La rimozione della massa tumorale al cervelletto richiede parecchie ore di sala operatoria. Segue una degenza che forse è stata breve. I ricordi sono po’ appannati nel signor Marco D.; ma vivido nella sua mente, è l’istante in cui la moglie arriva in ospedale e gli dice: “Andiamo a casa”. La gioia del ritorno in famiglia (ci sono anche due figli adottivi ad attenderlo) è però mortificata da una profonda depressione (fino all’ultimo Marco aveva sperato che non fosse “cancro” la sua malattia) e dalla difficoltà a dialogare. “Farfugliavo con le parole; oppure non le trovavo ma era come se le vedessi; nella mia testa i concetti erano chiarissimi, sapevo bene quel che volevo dire e mi angustiava non riuscire a esprimermi”. La situazione impone una cura con antidepressivi e varie sedute da un logopedista. Nello stesso periodo il signor Marco effettua sei cicli di chemioterapia. Ma poi, a ogni controllo, scatta l’esigenza per un altro intervento: asportazione del rene sinistro (con altri sei cicli di chemioterapia nell’insieme ben tollerati); asportazione della milza, sempre per progressione di malattia.

Il morale, ovviamente, è tutt’altro che alto. Si chiede aiuto (2006) a uno psicoterapeuta che è anche un cultore della moderna psicanalisi transgenerazionale. Fa riaffiorare, nelle sedute, ricordi sopiti. “Mi ha tirato fuori cose che non sapevo, collegate al rapporto tra i miei genitori, alle ferite profonde che li avevano segnati negli anni di guerra (un bimbo di due anni morto perché non fu possibile, per un blocco stradale, raggiungere per tempo l’ospedale; uno zio annientato dal calcio di un mulo; il dissesto economico indotto dal periodo bellico e da parenti profittatori): quel loro vissuto aveva inciso anche sulla mia vita. Tramite le sedute emergono soprattutto i mai affrontati né resi consapevoli ‘risentiti negativi’: chiusi nell’animo, scopro che originano dal fallimento di una ditta collegata al mio lavoro. Quel fatto increscioso aveva distrutto la fiducia in me stesso, indotto in me un gran senso di colpa nei confronti dei clienti che mi si erano affidati, benché non avessi alcuna responsabilità oggettiva. Ricordo che versavo lacrime, ma erano lacrime che mi fortificavano; dopo, mi sentivo come liberato da un peso”.

Nel 2008, una macchia rossa nell’occhio induce l’oftalmologo a una biopsia della congiuntiva: si rileva il raro linfoma MALT: colpisce le mucose di vari organi ma per fortuna è a lenta evoluzione. Nonostante le malattie, il signor Marco D. – una gran tempra – si sente bene. Supera, nel 2009, un intervento al fegato; nel 2012 entra in ospedale per l’asportazione di noduli polmonari. È finita? Macché! Nel 2014, laparatomia per resezione di ansa intestinale (un tratto dell’ileo). L’ematologo gli consiglia fortemente una chemioterapia. “Me ne parlava già nel 2008; io però, superati i continui problemi, mi sentivo subito in buone condizioni di salute. Così esternavo dubbi sull’improrogabilità della chemioterapia. Allora il medico rimandava la data proposta per il trattamento. Gli sono grato per il suo ascolto, per l’attenzione costante alle mie richieste, per la sua sensibilità”.

Durante tutte le sue traversie, ha mai pensato di far ricorso a terapie alternative? La risposta è immediata: “Sì”. Racconta che un fisioterapista amico, tempo addietro, lo indirizzò a un medico di Genova specialista in omeopatia, fitoterapia, gemmologia: gli prescrisse subito farmaci fortificanti il sistema immunitario, debilitato dalle chemioterapie fatte negli anni precedenti. Lo stesso medico, cui Marco un giorno chiede se proprio non ci sia altra possibilità, per i suoi mali, che arrendersi alla chemio, gli indica l’ipertermia del professor Pontiggia a San Genesio di Pavia. Marco D. inizia nel luglio 2014 la terapia con tre sedute a settimana. Poi le sedute scendono a due a settimana, quindi a una ipertermia ogni 10-15 giorni; infine a una ipertermia al mese. Ai controlli periodici, le localizzazioni di malattia risultano regredite, poco o molto. Alcune sono totalmente sparite. Marco D. adesso si reca a San Genesio una volta ogni 5-6 settimane e assume le integrazioni omeopatiche quotidiane. L’ematologo di sua fiducia gli consiglia di continuare con l’ipertermia (sulla cui azione in un primo tempo, non conoscendola, nutriva forti dubbi). Un altro specialista, invece, pur con prove alla mano, usando un tono tra ironico e sprezzante, gli ha detto: “L’ipertermia? Acqua calda”. Marco D. ci è rimasto male, ma non ha replicato, è stato zitto. “Sono sempre un ammalato, lo dicono le cartelle cliniche – dichiara – ma io mi sento bene. Lavoro un po’ meno di prima, non per mancanza di energia: per via della crisi e anche perché da un anno sono in pensione. Seguo una alimentazione sana e ogni giorno, con mia moglie, poco importa se ci sia tempo buono o cattivo, mi faccio una bella camminata di almeno 4 chilometri”.